Tag Archives: noah

Oltre il Creatore, i pupazzi e la barba di Russel Crowe

Ho guardato Noah senza la pretesa che fosse l’ennesimo capolavoro “del maestro Aronofsky” e così è stato: Noah non è l’ennesimo capolavoro “del maestro Aronofsky”.

Mi piacerebbe dire, per cominciare, che Noah è il film meno aronofskyano del regista newyorkese, ma sono troppo pudico e troppo codardo per utilizzare aronofskyano in un enunciato che non sia autoreferenziale.

Dirò quindi che il linguaggio di Aronofsky è riconoscibile, per come lo conosciamo, solo in un paio di sequenze sulla nascita dell’universo e sulla creazione dell’uomo in cui ho trovato fin troppo facile abbandonarmi a generosissime epifanie e a speculazioni sul parallelismo tra la meravigliosa onnipotenza del Creatore e quella del narratore/creatore di un universo narrativo (e altre banalità sulla straordinarietà dello storytelling come esperienza). Si tratta di sequenze evocative, brillanti, girate meravigliosamente, durante le quali è facile capire di cosa volesse parlare Aronofsky quando si è messo in testa di fare un film sull’arca di Noè. Il resto del film è quasi un pretesto, ma sfortunatamente, il primo motivo per cui il film non non convince del tutto è che questo pretesto, questa cornice, dura più di 130 minuti.

Degli altri problemi di Noah protremmo fare una lunga lista: una scelta di casting troppo orientata al blockbuster; la computer grafica un po’ raffazzonata dei pupazzi, oltre che i pupazzi di per sè (giustamente taciuti dal trailer); i costumi à la Waterworld; un linguaggio stucchevole quando eccede col fantasy.

Ma la cosa che più mi ha infastidito, a caldo, è la pedanteria con cui Aronofsky ha confezionato il racconto. L’unica nota di merito è che una trappola per orsi funge da pistola di Chekhov, ma per il resto la sceneggiatura è tutt’altro che brillante, talmente puntuale nel lavoro di semina e raccolta e nel rispetto delle tempistiche che risulta pedante. Narrativamente Aronofsky ha preferito non osare e il risultato è una storia solida, lineare, una botte di ferro strutturale che assicura la fruibilità del film al pubblico ingenuo ma chiude ermeticamente, quasi le tenesse sottovuoto, tutte le nobili riflessioni sul rapporto tra uomo e Creatore. Il pubblico più esigente – non ho ancora capito se a torto o a ragione – può sentirsi un po’ messo in disparte.

Ma alla fine, chi vuole vedere nel film l’acume del “maestro Aronofsky” ci riesce, perdonando all’autore qualche leggerezza. Se l’esercizio narrativo può ridursi a questione di aritmetica delle forze messe in campo, Aronofsky risolve tutto nel modo più sicuro e meno brillante, ma è anche vero che, con un po’ di accondiscendenza, di un film atipico come Noah si può rimanere affascinati.

Per quanto nobile fosse il messaggio, insomma, il risultato è modesto, ma forse la sintesi tra argomento biblico e linguaggio pop, per sua stessa natura, conturba, fa pensare e alla fine non convince mai.

Ho letto il libro, comunque. Il film è meglio.